Oltre l'allenamento fisico

Oltre l’allenamento fisico

di Patrick McCarthy
traduzione di Marco Forti
Questa traduzione è stata espressamente autorizzata (la riproduzione di questo testo è consentita solo con il consenso scritto dell’autore)

L’eredità del sistema di autodifesa civile di Okinawa è, per molti versi, un microcosmo che riflette un’evoluzione sociale enigmatica. I relativi valori morali e spirituali sono così profondi che la loro grandezza deve ancora essere accuratamente misurata o pienamente compresa.

Introduzione
Si dice spesso che la pratica del karate-do sia un’esperienza profondamente personale, che tocca ciascuno di noi in modo diverso. I suoi valori spirituali, oscurati nel mondo occidentale dal fenomeno competitivo e dallo sfruttamento commerciale, sono così profondi che la loro grandezza deve ancora essere accuratamente misurata e pianamente compresa.
Il Karate-do, quando la sua pratica viene fortemente interiorizzata, cambia la vita, o forse più correttamente, cambia lo stile di vita. Il Karate-do (via del Karate), insegnando come trascendere le barriere imposte dalle distrazioni dell’ego, porta ad un viaggio senza distanza verso un obiettivo immutato.
Devo ammettere che, nel descrivere l’eredità del Karate-do, mi resta il dubbio sul fatto che io possa riuscire davvero a trasmettere informazioni che non siano già state scritte, in particolare da altri con più esperienza. Tuttavia, in questa luce, non posso fare a meno di ricordare le parole dello scienziato americano Carl Sagan quando descriveva l’intelligenza come la realizzazione di quanto poco comprendiamo in rapporto a tutto quello che c’è da conoscere. Einstein scrisse «non ci sono nuove leggi ma solo principi non ancora scoperti».
Così mi sono preso la libertà, a beneficio di coloro che non hanno avuto l’opportunità di esplorare ricerche così illuminate, di raccogliere e riportare alcune tra le testimonianze più provocatorie nella storia dell’eredità combattiva del Giappone. Spero sinceramente che questo articolo possa avvicinare il lettore alla scoperta dei valori più profondi del karate-do.
Mentre i vantaggi dell’allenamento fisico risultano perfettamente ovvii, è mia intenzione lasciare che le testimonianze di molte autorità eminenti del budo illustrino i valori nascosti che si celano oltre tali risultati immediati. E come, ancor più specificamente, questi valori nascosti possano essere enormemente benèfici fuori dal dojo, nel mondo individuale della nostra vita quotidiana.
Sebbene una presentazione più dettagliata potrebbe meglio illustrare la miriade di fenomeni correlati relativi al karate moderno, alla sua interpretazione sportiva, alla storia, filosofia e alle sue applicazioni, lo scopo di questo articolo è quello di analizzare “la via del karate-do” attraverso l’esame dei suoi valori non utilitaristici.
Non mi considero realmente un esperto nelle tradizioni combattive anche se il mio interesse nei loro confronti è progressivamente cresciuto sin dall’infanzia. Ciononostante spero che la mia presentazione possa fornire al lettore le informazioni necessarie per confermare o rivalutare la comprensione dell’arte e allo stesso tempo permettere di scoprirne gli scopi alternativi ed i messaggi più profondi.
Per coloro che non sono direttamente connessi al fenomeno karate, spero che queste informazioni possano spingerli in qualche modo a considerare il messaggio più profondo del karate-do come apporto alternativo per migliorare le aree di interesse individuali.

Filosofia orientale
La crescita e la direzione delle tradizioni del combattimento civile, salite alla ribalta in Cina durante la dinastia Ming (1368-1644), furono profondamente influenzate dalle virtù, dai valori e dai principi della spiritualità. Così come la saggezza della filosofia orientale aveva influenzato la prospettiva morale e lo stile di vita quotidiano dei guerrieri samurai giapponesi, il buddhismo, il confucianesimo ed il taoismo hanno, ancora oggi dopo secoli, una profonda influenza sulla società occidentale.
Il karate-do ci insegnandoci ciò che attiene al “mondo interiore” e come questo suo grandioso potere possa controllare e migliorare il “mondo esteriore”. Abbracciando antiche dottrine rappresenta uno dei tanti veicoli attraverso i quali viene diffuso questo messaggio, così profondamente importante.
Un antico proverbio ci ricorda che possono esserci molti sentieri che portano alla cima della montagna ma anche che, una volta arrivati, c’è una sola luna da ammirare. L’illuminazione non si cura di come viene raggiunta né del fatto che non sia necessario lasciare il dojo per ottenerla. Le barriere delle conquiste umane sono solo nella mente.
Lo scopo ultimo del karate-do trascende le barriere delle delusioni mondane, superate attraverso un viaggio senza distanza. Spesso descritta come forma d’arte, in contrasto alla sua applicazione pratica, la piattaforma spirituale su cui si basa il karate-do è rimasta celata al mondo occidentale, in parte a causa del fenomeno competitivo e in parte per lo sfruttamento commerciale da parte delle forze dominanti.
Le differenze culturali che hanno tradizionalmente diviso l’oriente dall’occidente hanno reso la comprensione della filosofia orientale alla mente occidentale quantomeno sconcertante quando non del tutto confusa. Tuttavia oggi, in un’era in cui molti di noi stanno cercando metodi per trascendere lo stress e le malattie correlate ad una società che si muove troppo velocemente, le tradizioni introspettive orientali, come il karate-do, offrono alternative profondamente gratificanti. Il karate-do, insegnandoci come tornare alla natura, è olistico al 100%.
L’essenza spirituale di questa filosofia può essere trovata in testi quali il Dàodéjīng di Lǎozi, l’Arte della Guerra di Sūnzǐ, il principio “ni sente nashi” di Muso Soseki, lo Spirito della mente inamovibile di Tsukahara Bokuden, l’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo, La mente senza restrizioni di Takuan Soho, il Libro dei cinque anelli di Miyamoto Musashi, la Spada senza spada di Yamaoka Tesshu, per nominare solo alcuni tra i più popolari tradotti in inglese. La lettura di queste opere aiuterà gli appassionati a comprendere meglio la mentalità giapponese ed il modo in cui la stessa ha influenzato lo sviluppo del karate-do.
Inoltre, comprendendo tale mentalità, risulta chiaro come l’influenza occidentale, lo sfruttamento commerciale ed il fenomeno competitivo abbiano oscurato la vera natura delle tradizioni combattive. Questo contribuisce alla comprensione dell’enigma che continua a minare l’ideologia su cui si basa il karate.

Cos’è il karate-do?
Il karate-do giapponese moderno, basato sui residui del sistema di autodifesa okinawense, è allo stesso tempo sia uno sport competitivo sfidante che un profondo veicolo di introspezione. Come fenomeno sociale è anche un microcosmo che riflette la cultura austera dalla quale ha avuto origine.
Di tradizione modesta ma rispettabile, il karate-do deve ancora guadagnare la considerazione mondiale di cui godono oggi altre arti. Ben conosciuto per i suo metodi eccezionali di condizionamento fisico e autodifesa, come altre forme di budo giapponese il karate-do è – cosa più importante – un veicolo unico di introspezione attraverso il quale sono possibili conquiste personali di incommensurabile valore.
Praticato vigorosamente sia per l’efficacia fisica che per i valori non utilitaristici, il karate-do è un metodo eccellente attraverso il quale promuovere il miglioramento della salute e del carattere mentre si studia l’arte dell’autodifesa. Esso rappresenta inoltre un percorso di umiltà attraverso il quale superare le umane miserie e le delusioni mondane, migliorare l’integrità personale e guadagnare una più profonda comprensione di se stessi e del mondo in cui si vive. Lo studio del karate-do (come forma d’arte) consiste nel bilanciare allenamento fisico senza compromessi e assimilazione filosofica, abbracciando genuinamente i valori morali sui quali si basa la tradizione e perseguendo uno stile di vita imperniato sulla modestia.
L’elevato stato di concentrazione ed autostima, coltivato attraverso questo particolare equilibrio (conosciuto come bun bu ryo do in giapponese) rafforza la determinazione personale e l’impegno verso la crescita interiore e la realizzazione, a prescindere dallo sforzo individuale. In tal modo il karate-do, oltre a formare uno spirito indomito, può costituire il mezzo principale attraverso il quale massimizzare l’impegno personale e la dedizione mentre si migliora la performance fisica individuale. Quando studiato profondamente, migliora il valore di ogni singolo giorno della nostra vita e ci insegna come goderne in maniera più produttiva.
Chi ha familiarità con l’efficacia che si ottiene combinando allenamento fisico rigoroso, ascetismo e meditazione protratta, può prontamente testimoniare le conquiste interiori rese possibili attraverso la pratica del karate-do. Ora, per quanto tale arte goda oggi di popolarità in tutto il mondo, raramente ci si avventura oltre gli immediati risultati dell’allenamento fisico.

Un punto di interesse
Sebbene vada oltre gli scopi di questa presentazione, uno studio più approfondito sulle forze antropologiche che hanno influenzato la crescita e la direzione delle tradizioni del combattimento civile schiuderebbero indiscutibilmente le porte ad una più audace comprensione del karate-do.
Ciononostante, per afferrare del tutto l’importanza del fenomeno karate-do, diventa tuttavia necessario per noi esaminare, almeno in parte, le circostanze storiche attraverso le quali si è evoluto. Nel farlo, scopriremo che impatto ebbero taoismo, confucianesimo e buddhismo sui valori morali e spirituali del quanfa cinese e sul suo ingresso nel Regno delle Ryukyu. Analizzeremo perché il quanfa cinese (chiamato toudi dagli Uchinanchu) nel regno delle Ryukyu sia stato utilizzato come strumento per mantenere l’ordine e come sia stato radicalmente influenzato dal soggiogamento militare e dall’oppressione politica. Scopriremo anche perché il quanfa, ad Okinawa, sia stato trasmesso seguendo ferrei rituali di segretezza e come, insieme ad altre discipline difensive, abbia costituito il nucleo dal quale si è originato il Ryukyu kenpo karatejutsu. Incontreremo infine le forze onnipotenti del nihonjinron (unicità giapponese) ed il significato del bushido, analizzando cosa rappresentano e come, insieme, abbiano rivoluzionato il Ryukyu kenpo karatejutsu.

Lo spirito del guerriero samurai
Il guerriero samurai del Giappone antico viveva seguendo una filosofia unica negli annali del genere umano. Offrire la vita per il proprio signore rappresentava, per i samurai, la morte più gloriosa. Così essi vivevano ogni giorno col costante desiderio di bellezza e perfezione, mentre si preparavano ad incontrare il loro destino. Questa filosofia peculiare, nota come bushido, era la “via del guerriero” ed il suo codice di condotta, austero ma elegante, esercitava un profondo impatto sulle vite delle persone comuni in Giappone. È attraverso lo spirito del guerriero feudale giapponese che le tradizioni combattive sono state tramandate fino ai giorni nostri. Chi crede che questa antica fratellanza sia svanita con il feudalesimo ed i guerrieri samurai, dovrebbe ricordarsi di Mishima Yukio e della sua morte per sventramento (seppuku), nel 1970. Uccidendosi con una spada, Mishima, ha ricordato che la “via del guerriero” è ancora un fenomeno vivente ed è tuttora portata avanti da coloro che perpetuano lo spirito del bushido.

Un riassunto della storia del karate
Miyagi Chojun (1888-1953), fondatore del goju-ryu scrisse, nel marzo del 1934 un mese prima di partire per le Hawaii, che indipendentemente da quando e dove si svilupparono le tradizioni del combattimento civile, esse si dovevano essere evolute parallelamente al genere umano, fin dall’antichità, proprio a causa dell’animosità relativa alla natura umana.

Mettere a riposo un mito
Una diffusa credenza vorrebbe farci credere che l’eredità del combattimento civile ad Okinawa si sia sviluppata grazie alla classe contadina soggiogata del periodo pre-Meiji. Descritti come tiranneggiati dai loro signori, i contadini, nello sforzo di liberarsi dalle catene dell’oppressione, avrebbero, secondo tale supposizione, concepito un’arte combattiva onnipotente. Nonostante le loro scarse abilità si è ipotizzato che i principi incomparabili del combattimento siano stati in qualche modo applicati agli oggetti usati nella loro vita quotidiana. Si è inoltre ritenuto che, nei periodi di totale oscurità, per paura di rappresaglie nel caso fossero stati presi, i contadini non solo abbiano dato origine a questo fenomeno culturale, ma siano anche riusciti a tramandarlo per generazioni, senza che le autorità locali se ne accorgessero.
La teoria della “supposizione sui contadini dell’era pre-Meiji”, supportata solo da mere discussioni costruite su testimonianze storiche inaccurate, non è degna di seria considerazione. Nondimeno quegli stessi contadini sono stati erroneamente accreditati dello sviluppo delle tradizioni combattive sia armate che a mani nude di Okinawa. Tuttavia, uno studio più accurato della storia del Regno delle Ryukyu rivela scoperte che suggeriscono una spiegazione più plausibile.

“Un’isola senza armi”
Quando il capitano Basil Hall discusse con Napoleone in merito al potere militare del Regno delle Ryukyu, descrisse Okinawa come un’isola senza armi. In realtà il Regno delle Ryukyu è stato sempre a contatto con le vie della guerra, con la presenza di armate di soldati addestrati nell’uso di spade, lance, archi e equitazione, l’uso delle mani e dei piedi e la conoscenza di tecniche basilari di lotta hanno, da tempi antecedenti l’inizio della storia scritta, preparato il guerriero a sottomettere il suo avversario anche quando disarmato. Il folklore racconta di fiere battaglie nel periodo del regno di Shunten (figlio di Minamoto Tametomo, 1166-1237), nelle quali i guerrieri okinawensi utilizzavano un efficace metodo di lotta quando venivano disarmati sul campo di battaglia. La storia dell’introduzione dell’arte del combattimento di origine cinese nelle Ryukyu rimane oggetto di intensa curiosità. Le reminiscenze di tale arte, definita tegumi (scritta con gli stessi due ideogrammi utilizzati per kumite con posizione invertita), servì quale base dalla quale si sviluppò il te, una tradizione difensiva civile indigena.

Il legame con il Regno di Mezzo
Il legame simbiotico di Okinawa con la Cina ha rappresentato l’impulso grazie al quale il piccolo regno ottenne una posizione di rilievo. Infatti il legame con la Cina e le merci provenienti dalla via della seta fornirono l’opportunità per un commercio prospero con Corea, Giappone, Tailandia e Sud Est Asiatico. Dal tardo quattordicesimo secolo fino all’inizio del diciassettesimo il Regno delle Ryukyu prosperò come porto di scambio e Okinawa divenne nota come “isola del tesoro”.

Sebbene gli iniziali contatti di Okinawa con la Cina si facciano risalire al periodo Tang (618-907), fu solo nel 1372, quattro anni dopo la sconfitta dei Mongoli per opera delle forze della dinastia Ming (1368-1644), che Yuan, primo sapposhi (inviato speciale dell’imperatore Ming) giunse a Chuzan, il più potente dei tre regni in cui all’epoca era divisa Okinawa. Sbarcato a Makiminato (porto Maki) nel periodo del regno di Satto (nato nel 1320, salito al potere nel 1350 e morto nel 1395), l’emissario imperiale descrisse l’unificazione della Cina e la sua onnipotenza, sottolineando il gran valore derivante dallo stringere un forte legame con il nuovo imperatore. Il rappresentante dei Ming, che si consideravano il centro del mondo, stava chiedendo a Chuzan di diventare colonia tributaria.

Satto, che aveva precedentemente beneficiato del commercio limitato e non omologato con Fuzhou, riconobbe la solennità di questa opportunità ed accolse la richiesta. Taiki, fratello del re Satto, in veste di emissario speciale partì con i tributi del regno alla volta della Cina, dove il patto venne ratificato e si diede inizio ad una nuova era sotto l’influenza cinese.

La storia delle trentasei famiglie
Nel 1392 una missione cinese si trasferì in pianta stabile a Kuninda (villaggio di Kume), nei pressi di Naha. Questo fatto viene spesso ricordato come l’aneddoto delle “trentasei famiglie”. Si tratta di un fatto storico rilevante dato che rappresenta la prima fonte di trasmissione diretta e sistematica della cultura e delle tradizioni cinesi nel Regno delle Ryukyu. La condivisione delle conoscenze politiche, educative ed occupazionali dei sofisticati Cinesi con gli Uchinanchu (Okinawensi) ebbe un profondo impatto su numerosi aspetti della cultura degli abitanti di Okinawa. Il buddhismo, il confucianesimo ed il taoismo, che toccarono in modo penetrante le convinzioni religiose degli isolani, servirono anche ad influenzare i precetti morali che governano le discipline del combattimento civile.
Il “resoconto Takanoya”, pubblicato per la prima volta nel giugno del 1896, fornisce una descrizione illuminata di questo fatto. La città principale e capoluogo di Okinawa, Naha, ha assorbito molti villaggi, così come la precedente capitale dell’ex regno, Shuri. Il villaggio di Kume ha giocato un ruolo unico nella storia di Okinawa. Fu fondato nel 1392 d.C. da immigrati cinesi (le tradizionali “36 famiglie”) per garantire una residenza ai diplomatici cinesi ed essere un luogo dove i nobili di Okinawa potevano studiare la lingua e la cultura cinese.
Le relazioni formali si protrassero dal 1372 al 1873, anno dell’ultima missione inviata in Cina. I giovani di Okinawa imparavano a parlare, leggere e scrivere in cinese a Kume. I più meritevoli venivano inviati nella capitale cinese dove ricevevano istruzione formale sovvenzionata dal governo cinese. L’arricchimento culturale di Okinawa ottenuto attraverso Kume fu incalcolabile. Qui gli uomini non solo imparavano la lingua e la letteratura cinese ma acquisivano competenze nelle costruzioni navali, nell’artigianato e nelle arti.
Questo fatto ha un grosso significato storico poiché fornisce una chiara indicazione del periodo in cui la cultura cinese iniziò ad essere sistematicamente diffusa, nonché del periodo in cui le tradizioni del combattimento cinese vennero introdotte e studiate.

Studiare in Cina
Contingenti di Uchinanchuryugakusei” (studenti stranieri ufficiali) fecero lunghi pellegrinaggi in varie parti della Cina (specialmente a Pechino, Nanchino e Fuzhou) ed acquisirono una profonda conoscenza del Regno di Mezzo e delle sue meraviglie.
I ryukagusei di Okinawa portarono in patria preziosi insegnamenti, così come avevano fatto i kentoshi giapponesi (inviati speciali dell’imperatore che portavano omaggi o tributi in cambio di conoscenze culturali) che, dal 630 all’894 accompagnati da un numeroso seguito di persone, fecero sedici viaggi in Cina, cercando conoscenze e tecnologie per migliorare la loro cultura.

I sapposhi
Fu attraverso i sapposhi che il Regno delle Ryukyu ricevette la maggiore influenza culturale. I sapposhi [termine giapponese pronunciato talvolta suppushi o sakuhoshi], inviati speciali dell’imperatore cinese, viaggiavano fino ai più lontani confini dei domini del loro signore, portando importanti dispacci, accompagnando amministratori coloniali e tornando con rapporti sulle situazioni. Su richiesta del re di Okinawa, i sapposhi vennero inviati nel Regno delle Ryukyu più di venti volte nel periodo di circa cinquecento anni, approssimativamente ogni volta che un nuovo re saliva al trono, dai tempi di Bunei-O nel 1404.
I sapposhi, che raramente rimanevano per un periodo superiore ai sei mesi, erano normalmente accompagnati da un seguito variabile dalle quattrocento alle cinquecento persone. Tra questi vi erano specialisti nell’occupazione, commercianti ed esperti di sicurezza. Aspetto significativo dal punto di vista storico poiché contribuisce ad identificare una delle fonti da cui le tradizioni del combattimento cinese (toudi) vennero formalmente introdotte ed in seguito coltivate nel Regno delle Ryukyu.
I principi dell’autodifesa cinese introdotti nel Regno delle Ryukyu attraverso i sapposhi del periodo Ming vennero utilizzati prevalentemente come metodi di controllo ad uso degli ufficiali delle forze dell’ordine, appartenenti alla classe dei pechin, dopo che il re Sho Shin pose termine al feudalesimo nel 1507.

Le dinastie di Okinawa
Il folklore isolano afferma che i tensonshi (letteralmente “i nipoti dal cielo”) fossero i regnanti leggendari che governarono l’arcipelago delle Ryukyu nel corso delle venticinque generazioni precedenti a Shunten. Tametomo (1139-70), ottavo figlio di Tameyoshi e subordinato di quello che in precedenza era stato il potente clan giapponese dei Minamoto, esiliato a Izu-Oshima riuscì a fuggire e a rifugiarsi nelle isole Ryukyu. Qui si sposò ed ebbe un figlio, Shunten, che nel 1186 sconfisse Riyu (ultimo regnante dei Tenson) e divenne il primo re dell’isola. La dinastia Shunten durò dal 1186 al 1253 e contò tre re: : Shunten (1166-1237), Shumma-junki (1238-48) e Gihon (1249-59). A seguire la dinastia Eiso che regnò dal 1260 al 1349 con cinque sovrani: Eiso (1260-99), Taisei (1300-08), Eiji (1309-13), Tamagusuku (1314-36) e Seiji (1337-49).
La dinastia Satto regnò nel periodo 1349-1407 con due sovrani: Satto (1350-1395) e Bunei (1396-1405).
Seguì la prima dinastia Sho dal 1407 al 1469 con sette re: Sho Shiso (1406-21), Sho Hashi (1422-39), Sho Chu (1440-44), Sho Shitatsu (1445-49), Sho Kinfuku (1450-53), Sho Taikyu (1454-60) e Sho Toku (1461-68). La seconda dinastia Sho guidò il regno dal 1470 al 1879 con 19 sovrani: Sho En (1470-76), Sho Seni (1477), Sho Shin (1477-1526), Sho Sei (1527-55), Sho Gen (1556-72), Sho Ei (1573-88), Sho Nei (1589-1620), Sho Ho (1621-40), Sho Ken (1641-47), Sho Shitsu (1648-68), Sho Tei (1669-1709), Sho Eki (1710-12), Sho Kei (1713-51), Sho Boku (1752-94), Sho On (1795-1802), Sho Sei (1803), Sho Ko (1804-34), Sho Iku (1835-47) e Sho Tai (1848-79).

Struttura e gradi di classe ad Okinawa
Il resoconto di Takanoya descrive classi e gradi in uso nel Regno delle Ryukyu: gli abitanti erano suddivisi in undici classi, nello specifico: principi, anji, oyakata, pechin, satunushi-pechin, chikudoun pechin, satunushi, saka satunushi, chikudoun, chikudoun zashiki e niya.
I principi erano i fratelli e gli zii del re. Gli anji (o aji) erano (non sempre) i figli degli zii e dei fratelli del re; per questo motivo, nel corso del periodo di occupazione da parte del clan Satsuma, gli anji non erano inclusi tra gli shizoku (una sorta di samurai militari). I Giapponesi assimilavano gli anji ai daimyo.
Gli oyakata erano equiparati ai samurai di alto rango, pechin e satunushi-pechin erano equiparati ai samurai di medio rango. Le altre classi erano composte dai figli e dai fratelli degli shizoku di alto e medio rango. I niya erano i cittadini comuni.

C’erano nove livelli di shizoku. Ciascuno era contraddistinto da specifici abiti e accessori. Talvolta tuttavia, anche gli appartenenti alle classi inferiori potevano essere selezionati e promossi, anche alla posizione di sanshikan (tre ministri superiori). Ai ministri straordinari venivano assegnati il primo grado o vice-primo grado. Tutti gli altri gradi venivano determinati secondo le circostanze. Un cittadino comune che per un determinato numero di anni aveva servito come jito (amministratore di un feudo) oppure aveva gestito con profitto un magiri [o majiri], in origine territorio controllato da un anji, o un mura (villaggio), poteva essere elevato allo stato di chikudoun. Se si era dimostrato eccezionalmente competente poteva essere promosso al grado di chikudoun-pechin, senza però essere considerato samurai né poter vestire l’haori o il tabu.

I pechin
I pechin erano subordinati di medio rango del re delle Ryukyu. Servirono il regno dal 1509 al 1879, quando la dinastia venne definitivamente abolita. Secondo il Centro di Ricerca sulla Cultura di Okinawa dell’Università giapponese Hosei, i pechin gestirono, tra l’altro, i vari gradi dell’amministrazione civile e le forze dell’ordine locali. Sono presenti testimonianze sui sapposhi, su alcuni degli esperti che li accompagnarono e su molti di quei pechin che vennero influenzati dai loro insegnamenti.

La classe dei pechin, responsabili della protezione del re, del mantenimento della pace e di tutte le materie correlate alla sicurezza del distretto, attinse a piene mani dalle conoscenze pervenute grazie alla connessione con il Regno di Mezzo, in particolare con Fuzhou. Analizzando i principi delle discipline da combattimento cinesi, i pechin cercarono di migliorare la loro comprensione dei fenomeni di autodifesa civile.

Secondo Takara Kurayoshi c’erano due divisioni separate di pechin (termine pronunciato anche peikumi o uyakumui) responsabili dalle operazioni per il mantenimento dell’ordine e materie correlate: satunushi e chikudoun. Secondo il Centro di Ricerca sulla Cultura di Okinawa dell’Università di Hosei, queste divisioni erano ulteriormente suddivise in dieci sottocategorie basate sull’anzianità.

Gli aspetti amministrativi di “legge ed ordine” erano governati dagli ufficiali più anziani all’ufficio okumiza, che incorporava un dipartimento di polizia, un procuratore ed un tribunale. L’hirasho (o hirajo), versione dell’epoca del municipio, posizionato all’interno del castello di Shuri, aveva due funzioni specifiche. Una era l’anagrafe, sistema di registrazione di tutte le nascite e le morti, l’altra era quella incaricata di investigare su fatti di corruzione. I distretti più periferici avevano uffici più piccoli, denominati kogumiza e spesso utilizzati come hirajo territoriale o di autogoverno.

Il sistema giudiziario del Regno delle Ryukyu prevedeva l’impiego di ufficiali giudiziari responsabili di recapitare atti procedurali e citazioni, nonché di effettuare arresti, prendere prigionieri in custodia e garantire l’esecuzione delle sentenze. I chiku-saji pechin, o poliziotti di strada, garantivano il rispetto della legge mentre gli shiki, guardie del castello, si occupavano della difesa militare, della guardia al castello e della protezione del re. Questi ufficiali e questo sistema erano responsabili della perpetuazione del diritto civile e della trasmissione delle discipline di autodifesa.

Nel 1507, durante il trentesimo anno del suo regno, Sho-Shin-O (nato nel 1464, salito al trono nel 1477 e morto nel 1526), terzo re della seconda dinastia Sho, pose fine al feudalesimo nel Regno delle Ryukyu e ratificò l’Atto delle undici Distinzioni. Questo decreto, oltre a proibire il possesso privato e la conservazione di armi, richiese ai capi distretto con sede all’esterno della capitale di prendere residenza all’interno del castello di Shuri. Questo è un fatto storicamente significativo perché fornisce le basi per la coltivazione di metodi alternativi di gestione delle forze dell’ordine.

Elementi da considerare
Un centinaio d’anni prima che un decreto simile venisse preso in considerazione nella madrepatria giapponese, Sho-Shin-O proibì il possesso privato e la conservazione delle armi da guerra. Centocinquant’anni prima che Tokugawa Ieyasu (primo shogun giapponese) imponesse ai propri daimyo (signori feudali) l’obbligo di stabilirsi a Edo (Tokyo), Sho-Shin-O diede ordine ai propri Aji (capi distretto) di ritirarsi dalle proprie fortezze e prendere residenza nel distretto del castello di Shuri, rafforzando in questo modo il controllo su di loro.

Appena un secolo prima che gli Edo-Kasatsu (ufficiali delle forze dell’ordine del periodo Tokugawa, 1603-1868) introducessero l’uso del rokushaku-bo (bastone da sei piedi) e del jutte (manganello d’acciaio), gli ufficiali della classe dei pechin delle Ryukyu praticavano un sistema di autodifesa che impiegava strumenti in uso nella vita di tutti i giorni.

Lo studio delle tradizioni del combattimento serviva efficacemente a formare un corpo forte e in salute, uno spirito indomito ed un carattere onorevole. Così, le tradizioni combattive di origine cinese vennero praticate principalmente, ma non solo, dai giovani subordinati della zona del distretto di Shuri e dalla comunità cinese originaria del Fujian, stabilita a Kuninda.

Soggiogata dai samurai Satsuma all’inizio del diciassettesimo secolo, Okinawa venne radicalmente influenzata da forze antropologiche giapponesi ma riuscì a mantenere i contatti con la Cina. Le tradizioni del combattimento okinawensi/cinesi, evolute secondo un ferreo rituale di segretezza, si riaffacciarono pubblicamente durante il periodo Meiji (1868-1912).

Storia moderna
Con l’abolizione del Bakufu Tokugawa (governo militare che guidò il Giappone dal 1603 al 1868) la restaurazione Meiji traghettò il paese dal feudalesimo alla “democrazia”. Di conseguenza la struttura delle classi, il portare le spade, lo stipendio annuale ed il proverbiale chonmage (tipica acconciatura), finirono negli annali della storia, così come accadde agli altri fenomeni sociali che rappresentavano le forze dittatoriali del feudalesimo.

A causa dell’incapacità di sfuggire al maschilismo e al timore di perdere la propria identità omogenea a cause dell’influenza straniera, buona parte dei princìpi fondamentali del Giappone ne riflettevano le ideologie feudali. Le forme di bugei (arti marziali), perpetuando antiche tradizioni e allo stesso tempo incoraggiando lo sviluppo di nuovi passatempi e ricreazioni culturali, divennero una forza strumentale alla formazione della storia del Giappone moderno. Basati su usanze antiche, ideologie inflessibili e profonde convinzioni religiose, le interpretazioni moderne del budo giapponese rappresentavano qualcosa di più di una forma di ricreazione culturale. Nella sua nuova impostazione socio culturale, il budo serviva, in molti modi, quale strumento attraverso il quale incanalare il kokutai (sistema di governo nazionale), introdurre i precetti del shushin e perpetuare il nihonjinron, o peculiarità dell’essere Giapponese.

Il fenomeno moderno del budo, basato su sport e ricreazione, promuoveva un profondo rispetto per le virtù, i valori ed i principi riveriti nel bushido feudale – “la via del guerriero” – che, tra le altre cose, incoraggiava la volontà di combattere fino alla morte o anche di togliersi la vita se necessario. Entrambi gli ibridi kendo e judo incoraggiavano lo shugyo (austerità) e guadagnarono ampia popolarità in quell’epoca di crescente militarismo.
Il budo moderno, supportato dal Monbusho (Ministero dell’Educazione), prosperò nel sistema scolastico giapponese. Adottato da un’aggressiva campagna militarista, il budo moderno veniva spesso pubblicizzato come la via attraverso la quale “uomini comuni acquisivano un coraggio straordinario”. In questo modo kendo e judo servirono allo scopo di produrre corpi forti e abili e promuovere uno spirito combattivo indomito per la macchina bellica giapponese.

Ryukyu Kenpo Karatejutsu
Con la trasformazione di Okinawa in prefettura giapponese, i militari vi promossero una vigorosa campagna di arruolamento volontario. Due dei primi giovani esperti, riconosciuti per le esemplari condizioni fisiche dovute al loro allenamento nel Ryukyu kenpo karatejutsu (nel corso della valutazione medica per la campagna di arruolamento del 1891) furono Hanashiro Chomo (1869-1945) e Yabu Kentsu (1866-1937).

In seguito, la mera possibilità che questo fenomeno combattivo okinawense/cinese poco conosciuto potesse contribuire a migliorare l’efficacia militare giapponese, come nel caso di kendo e judo, fece sì che venisse predisposto uno studio per valutarne il potenziale.

All’inizio del ventesimo secolo venne promossa una campagna per introdurre il Ryukyu kenpo karatejutsu, quale forma di esercizio fisico, nel sistema scolastico di Okinawa e questo obbligò gli amministratori a rivederne sostanzialmente gli scopi. Rimuovendo molto di quel che era considerato troppo pericoloso per i bambini in età scolare, l’enfasi venne spostata dall’autodifesa al benessere fisico, promuovendo la pratica dei kata ma evitando di trasmetterne le applicazioni. Così facendo, senza trasmettere i segreti nascosti dell’autodifesa, il reale significato dei kata venne oscurato mentre si originava una nuova tradizione.

Gli storici impegnati nella ricerca sul karate ora concludono che questo periodo di transizione rappresenti la fine dell’arte segreta di autodifesa e la nascita di un fenomeno unicamente ricreativo. Tale fenomeno venne introdotto nella madrepatria adeguandosi alle forze del conformismo giapponese e trasformandosi in una nota disciplina competitiva.

Il Karate-do: un microcosmo della cultura giapponese
Konishi Yasuhiro (1893-1983), esperto di jujutsu e noto insegnante di kendo, aveva studiato Ryukyu kenpo karatejutsu prima della sua introduzione formale in madrepatria. Insieme ad Otsuka Hironori (fondatore del Wadoryu jujutsu kenpo), Konishi fu largamente responsabile del movimento di modernizzazione che rivoluzionò il Ryukyu kenpo karatejutsu. Konishi sensei, che aveva studiato direttamente con Funakoshi Gichin, Motobu Choki, Mabuni Kenwa e Miyagi Chojun, definì il karatejutsu, se confrontato con judo e kendo, come una disciplina incompleta.
Konishi affermò francamente che il karate moderno venne forgiato esattamente nello stesso modo di kendo e judo. Lo spirito combattivo degli antichi guerrieri samurai, fondamentalmente le varie scuole di kenjutsu e jujutsu, fornirono l’infrastruttura sulla quale si sviluppò il fenomeno del budo moderno.
Il kendo venne creato utilizzando i concetti fondamentali delle più eminenti scuole di kenjutsu, così come i principi più profondi del jujutsu servirono da basi per la creazione del judo.

Un vecchio kotowaza (proverbio) giapponese descrive perfettamente come le cose o persone “differenti” (inteso come non in armonia con il principio wa) vengano forzatamente riportate al conformismo o bloccate dalle onnipotenti forze culturali giapponesi: deru kugi wa utareru, vale a dire il chiodo che sporge viene immediatamente ribattuto.

Forze culturali
Se comparato a kendo e judo, l’umile disciplina del Ryukyu kenpo karatejutsu, unica quale era, rimase, secondo gli standard giapponesi, incolta e priva di un’adeguata organizzazione o “unicità”. In breve, non abbracciava il principio del wa e pertanto non era giapponese.

Contrariamente a kendo e judo, il movimento del karatejutsu non aveva un’uniforme formale per la pratica e non prevedeva una struttura competitiva. Il curriculum di insegnamento variava da persona a persona e non c’erano standard organizzati per valutare accuratamente i diversi gradi di competenza. Il Ryukyu kenpo karatejutsu era, come si può immaginare, soggetto a critiche, rivalità e opposizioni xenofobe durante i primi tempi della sua introduzione da Okinawa alla madrepatria.

I criteri
Il periodo di transizione non fu immediato né privo di opposizioni. Incluse una fase di giustificazione, un periodo in cui le animosità erano ventilate ed il vento del dissenso portò con se i semi della riorganizzazione. Era un tempo in cui gli usi stranieri (gli Okinawensi venivano apertamente discriminati ed il sentimento anti-cinese era dilagante) venivano metodicamente respinti e sostituiti dall’introduzione di convinzioni omogenee.
Il Butokukai (organo nazionale giapponese per le tradizioni combattive) propose l’adozione di un’uniforme standard per la pratica e chiese di sviluppare ed implementare un curriculum di insegnamento univoco. Chiese inoltre di definire standard consistenti per la valutazione dei vari gradi di abilità, come nel kendo e nel judo, nonché l’adozione del sistema dan/kyu (introdotto da Kano Jigoro).

Doveva inoltre essere sviluppata una struttura competitiva sicura, attraverso la quale i praticanti potevano testare la propria abilità ed il proprio spirito combattivo, come nel kendo e nel judo. In effetti il Ryukyu kenpo karatejutsu era, come affermato da Konishi Yasuhiro, strutturato ad immagine di kendo e judo. Così come dodici pollici formano un piede, il piano consisteva nel creare un set di standard universalmente accettati come nel judo e nel kendo.

Non si dimostrarono meno esigenti le potenti forze del nazionalismo, combinate con il diffuso sentimento anti-cinese. Insieme spinsero il movimento del karatejutsu a riconsiderare un prefisso più appropriato per rappresentare la disciplina, sostituendo l’ideogramma che lo identificava con la Cina. Nel perseguire la transizione il movimento del Ryukyu kenpo karatejutsu avrebbe inoltre abbandonato il suffisso jutsu rimpiazzandolo con il termine moderno do, come nel judo e nel kendo.

Il kara di karate-do
L’ideogramma originario poteva essere pronunciato sia “tou” che “kara”.
Kinjo Hiroshi afferma che fino al periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale i maestri di karate Uchinanchu (Okinawensi) si riferivano generalmente al karate con il termine toudi.
Utilizzato per la prima volta dall’insegnante di Kinjo sensei, Hanashiro Chomo(1869-1945) nel suo libro del 1905 intitolato karate kumite, il nuovo ideogramma identificava l’arte come un sistema di autodifesa con cui era possibile soggiogare un avversario utilizzando le sole mani “vuote”.

Il nuovo prefisso kara rappresenta il vuoto (come in mani vuote), e su un piano più profondo richiama la dottrina buddista relativa all’emancipazione spirituale del mondo interiore, così come l’uso del suffisso do.
Così la disciplina plebea del karatejutsu di Okinawa trascendeva il legame fisico di brutalità comune per diventare una forma del budo moderno, abbracciando quel che era giapponese. Come altre discipline culturali giapponesi, il karate-do divenne un altro veicolo attraverso il quale veniva canalizzato il principio tutto giapponese del wa. Da qui il termine innovativo karate-do (via del karate) sostituiva definitivamente il termine toudijutsu (arte del toudi).

Funakoshi Gichin, in merito all’ideogramma kara di karate-do, scrisse “così come una valle silenziosa riporta ogni minimo suono, così chi segue il karatedo deve essere in grado di rendersi vuoto trascendendo egocentrismo e avidità. Rendersi vuoti all’interno ma retti all’esterno. Questo è il vero significato del termine kara”.

Per quanto il nuovo termine karate-do, ottenuto utilizzando i due nuovi ideogrammi (kara e do), non sia stato riconosciuto ad Okinawa fino al 1936, il Dai Nippon Butokukai lo ratificò nel dicembre del 1933 quando il karate-do venne infine riconosciuto come budo giapponese moderno. Oggi molti storici ritengono che il Ryukyu kenpo karatejutsu, come introdotto in madrepatria in quei primi giorni, fosse al meglio un efficace, ma disorganizzato, metodo di autodifesa.

Il Butokukai ritenne che i miglioramenti avrebbero portato ad una singola coalizione sotto la sua egida, come accaduto al judo e al kendo. Tuttavia lo sviluppo del karate-do venne messo in secondo piano dalle avversità legate all’avvento della Seconda Guerra Mondiale. Fu così che l’introduzione di un insieme universale di standard, già presente in kendo e judo, non si attuò.

Molti credono che quando il Butokukai ed altre organizzazioni considerate fomentatrici del militarismo vennero chiuse nel 1945, quando il Giappone si arrese incondizionatamente alle Forze Alleate, anche l’idea di sviluppare il karate-do come disciplina unitaria, come judo e kendo, sia stata abbandonata. Tuttavia il karate-do, come il judo ed il kendo, godette di una inaspettata popolarità grazie alla sua versione sportiva, nata nel sistema scolastico.

Nonostante la crescente popolarità il karate-do era destinato a mantenere la sua individualità viste le differenze di opinioni, le animosità personali e le forti rivalità. Il karate-do non riuscì mai a trasformarsi in tradizione univoca, come judo e kendo, al contrario si svilupparono miriadi di interpretazioni eclettiche. Fenomeno questo che, nel bene e nel male, continua ancora oggi.

Kata
I kata classici del karate-do rappresentano i mezzi attraverso i quali gli antichi maestri hanno tramandato alle generazioni seguenti le loro conoscenze ed i loro segreti. Questi notevoli paradigmi rappresentano la vera ragione grazie alla quale il karate-do esiste ancora oggi.
Per i principianti nel karate-do i kata rappresentano il veicolo attraverso il quale si apprendono i princìpi centrali dell’autodifesa. Se c’è altro da scoprire oltre a questo, è qualcosa che si manifesta dopo uno studio intenso e migliaia di ripetizioni, una pratica che richiede di spostare l’attenzione verso l’interiore.

Sul piano fisico il kata comprende una miriade di applicazioni di autodifesa che devono essere studiati approfonditamente per poterne comprendere del tutto l’applicabilità. Si tratta di una pratica che non è stata tramandata in un ambito agonistico e che forza la comunità internazionale del karate-do a riesaminare la sua comprensione della tradizione.

Tuttavia aiuta sapere che queste applicazioni nascoste, chiamate bunkai, non erano originariamente pensate per essere utilizzate contro altri appassionati dell’arte, ma piuttosto sviluppate per essere impiegate contro punti anatomicamente vulnerabili di un ignaro aggressore. Infatti, ancora oggi, l’efficacia del karate-do come forma pratica di autodifesa dipende, almeno in parte, dall’inconsapevolezza da parte dell’aggressore dei metodi di neutralizzazione utilizzati contro di lui.

Questa era un’altra ragione per cui le tradizioni del combattimento venivano abitualmente insegnate in privato e solo a coloro che erano considerati degni di fiducia. L’istruzione di gruppo, come la conosciamo oggi, nacque contestualmente all’introduzione del karate-jutsu nel sistema scolastico di Okinawa.

Su un piano spirituale Uechi Kanbun (1877-1948), fondatore della tradizione Uechi Ryu e uomo che aveva studiato la disciplina in Cina, affermava: «solo attraverso il continuo studio del karate-do si possono raggiungere i più alti standard di bellezza interiore e forza. La fusione del corpo e della mente attraverso il karate-do è indescrivibilmente bella e spirituale. Quando si è totalmente assorbiti nella pratica del kata ci si trova in contatto completo con il nucleo centrale dell’essere. È qui che si deve scoprire l’essenza del karate-do».
Il kata, quando studiato correttamente, rivela sia i precetti fisici che quelli metafisici del karate-do. Meglio espresso seguendo i principi astratti dello shuhari ed i principi del sen, Kinjo Hiroshi, uomo descritto da Richard Kim come enciclopedia vivente, affermava che il kata è la bibbia del karate-do.

I precetti dello shuhari
Il termine Shuhari rappresenta le tre fasi della transizione, dal principiante al maestro. Con il sensei (termine che identifica il maestro ed il cui significato letterale è colui che è venuto prima) ed i senpai (praticanti più anziani come tempo di pratica) come modelli, infinite ripetizioni di kihon waza (allenamento di base) e kata si giunge a forgiare un corpo d’acciaio ed uno spirito indomito che migliora il dialogo interiore e rafforza il carattere.

Il termine shu significa letteralmente “proteggere” o “mantenere” e rappresenta l’apprendimento dalla tradizione. È in questo modo che la catena della tradizione viene perpetuata e tramandata. Questo stadio iniziale dell’allenamento rappresenta un passo indispensabile su una scala infinita di crescita e sviluppo nel karate-do. Non ci sono limiti per ciascuno dei tre stadi e la transizione da un livello al successivo non è semplice né immediata. Piuttosto si può dire che i livelli tendono a sovrapporsi l’un l’altro nella fase di transizione, il che consente una progressiva ritrazione da un livello e l’entrata graduale in quello successivo.

Il condizionamento secondario porta oltre i vincoli dell’allenamento fisico e lontano dalla tirannia delle delusioni terrene, dalle preoccupazioni del materialismo e dalle altre distrazioni dell’ego.
Ha significa letteralmente “staccarsi” e si riferisce al rompere le catene della tradizione. Tuttavia, fase spesso fraintesa, non significa allontanarsi da ciò che ci ha dato forza. Piuttosto ha rappresenta una fase di transizione da cui si emerge rafforzati grazie al potere dell’introspezione. Descritta come esplorazione del “mondo interiore”, in questa fase il kata e la meditazione protratta costituiscono il punto focale attraverso cui si comprende il potere supremo della mente. L’allenamento quotidiano, avendo un profondo effetto su ogni aspetto della vita e sulla comprensione del karate-do, porta ad un nuovo significato mentre si continua a perseguire la fase successiva della maestria.

Ri è la fase finale di transizione e letteralmente significa “andare oltre” o “trascendere”. Questo è ciò che comunemente viene definito illuminazione o emancipazione spirituale. Gli intermittenti lampi di saggezza, provocati dal continuo ed implacabile condizionamento, dall’assimilazione filosofica e dalla meditazione protratta, diventano più frequenti mano a mano che ci si avvicina a questo passaggio. Passare attraverso il portale del “mondo interiore” porta all’abisso e al successivo riemergere rinati. Coloro che falliscono nel passeggio rimangono per sempre ignari della vera essenza del karate-do e della maestria del “mondo esteriore”.

Questo descrive la dottrina dello shuhari che nello zen viene spesso definita come il completamento del cerchio o il raggiungimento di uno stato primordiale. Sebbene il suo simbolo sia un cerchio vuoto, ciò non significa che esso sia vuoto di significato per chi sta al suo interno. È al contrario pieno di vita, pace, felicità e appagamento. Il precetto dello shuhari non conosce le barriere del tempo.

Quando l’insegnante diviene allievo, il maestro un principiante e la fine un inizio, il principiante sarà vuoto dalle delusioni e dall’umana miseria. È quello a cui si riferiva probabilmente Thomas Stearns Eliot quando scrisse nell’opera “Quattro quartetti”: «non cesseremo mai di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta».
Si dice che non si possano porre limiti all’allenamento dei kata. Consumato nei e dai kata, un impermeabile strato di silenzio forma uno scudo dalle distrazioni esterne ed interne. La confusione interiore si dissolve gradualmente in ciò che non esiste più per nulla. Regolando il flusso dell’aria dall’interno del corpo e sincronizzandolo con l’esecuzione di ogni contrazione fisica, il kata diventa un potente veicolo di introspezione attraverso il quale l’esecuzione esterna ed i pensieri interni corrispondono armoniosamente.
Come in un rombo attutito i disturbi interni ed esterni svaniscono come suoni di tuoni lontani.
Costruendo a poco a poco un’immunità alle distrazioni triviali della vita, il distacco dalle illusioni diventa più facile e veloce. Sotto questa luce il kata viene spesso descritto come zen in movimento. Oltre la stanchezza, nonostante i muscoli dolenti, tutti abbiamo fatto esperienza della pace che fluisce calma nella brutalità del karate-do. È attraverso questa tranquillità che si realizza la ricerca del compimento.

La grandezza del kata
Se dovessimo considerare la miriade di fenomeni correlati all’autodifesa a cui si applica un singolo kata, capiremmo perché ogni kata rappresenta, esso stesso, un’intera tradizione. Potremmo anche giungere alla comprensione del perché così tanti pionieri del karate-do sostenessero l’importanza di concentrarsi nella maestria di un solo kata, anziché preoccuparsi dell’inutile accumulo di molti kata.

Fino all’inizio del secolo scorso la maggior parte delle scuole o tradizioni di Okinawa, se non tutte, si concentravano su un unico kata. Fu durante l’era di Itosu che questa tradizione prese una nuova direzione a causa, principalmente, della popolarità del karate-jutsu nel sistema scolastico. Più tardi, quando il karate-jutsu venne esportato in madrepatria (Giappone) il format agonistico rivoluzionò totalmente la pratica del karate-do.

Oltre a prese, controlli, corpo a corpo, proiezioni, leve articolari, tecniche di dislocazione, strangolamenti e traumatizzazione di aree vulnerabili presenti nei kata, consideriamo anche alcuni dei princìpi ad essi riconducibili:

  • yoi no kisin: prontezza mentale;
  • inyo (yin/yang): comprensione della grandezza di difesa e offesa;
  • go no sen: iniziativa difensiva;
  • sen non sen e sen: i due livelli dell’iniziativa combattiva;
  • maai: giusta distanza tra i corpi:
  • tai sabaki: i princìpi dell’equilibrio e del controllo guidato;
  • tai no shinshuku: espansione e contrazione, torsione dei fianchi, meccanica corporea e somma delle forze articolari;
  • chikara no kyojaku: corretto ammontare di forza per ogni tecnica;
  • kiaijutsu: costruire e rilasciare qi intenso;
  • waza no kankyu: velocità e ritmo della tecnica;
  • ju no ri: principio della resilienza e della volontà di flettersi al vento delle avversità;
  • bunkaijutsu: comprendere l’applicazione di ogni tecnica;
  • zanshin: allerta mentale e continuo dominio prima e dopo il fatto;
  • seishi no choetsu: trascendere i pensieri di vita e morte.

Comprendere la grandezza del kata, in particolare quando associato alla filosofia del do (taoismo), rende perfettamente chiaro come un singolo paradigma possa rappresentare un’intera tradizione di combattimento. Una volta che l’allievo avrà afferrato la solennità che ogni kata rappresenta, il suo allenamento personale prenderà una nuova direzione e dimensioni più dense di significato. Inoltre, abbracciando sinceramente i precetti sui quali si basa il karate-do, si può esser certi che le sue ramificazioni sociali giungeranno a permeare il carattere dei suoi praticanti, e di conseguenza, si otterrà un profondo miglioramento nel valore e nella direzione della vita in generale.

I precetti degli antichi maestri
Resta evidente che il karate-do, catalizzatore per migliorare il benessere individuale, è non solo una pratica incredibile ma anche un veicolo profondamente appagante. La scoperta interiore, oltre ai legami del suo valore fisico, fornisce le basi spirituali che esaltano la quotidianità della vita stessa. Se c’è del vero nell’espressione secondo cui l’esercizio fisico aggiunge anni alla propria vita, è sicuramente vero che il karate-do aggiunge vita a quegli anni.

Gli insegnamenti spirituali degli antichi maestri continuano a vivere grazie all’eredità del karate-do e vengono coltivati con pazienza e umiltà. L’umiltà costruisce forza dalla debolezza ed è il prodotto dell’austerità, chiamata shugyo in giapponese. È attraverso la pazienza e l’umiltà che si comprendono i valori più profondi del karate. Ed è ancora nella pazienza e nell’umiltà che i frutti del karate-do si possono meglio gustare.

Il karate-do insegna che l’origine della delusione è interna, non esterna. Per questo il viaggio verso la libertà deve essere interiore, non esteriore: un viaggio senza distanza verso un obiettivo che è sempre esistito, in un mondo senza inizio né fine. Una decisione che spesso risale dall’abisso ardente delle avversità personali, lo spirito d’introspezione è il punto d’imbarco.

La maestria nel karate non si trova in nulla di così superficiale come la prestanza fisica, la razza, lo stile ortodosso o il lignaggio di un insegnante, per quel che vale. La maestria priva di delusione emerge piuttosto dall’accettazione sincera e dall’applicazione genuina delle virtù, dei valori e dei principi sui quali si basano karate e kobudo. Questo messaggio ha avuto un impatto significativo sui fondatori di questa antica fratellanza ed è grazie a questo messaggio che essa si è perpetuata.

Nello sforzo di comprendere meglio la grandezza del karate-do, indipendentemente dalle sue diversità, portiamo ora l’attenzione alle testimonianze delle più importanti figure storiche del karate. Facendo questo possiamo meglio osservarne i precetti filosofici così come quella che è descritta come mentalità del bushido. Ho collezionato miriadi di precetti lasciati dalle prime autorità maggiormente responsabili delle trasmissione delle fondamenta morali e spirituali sulle quali si basa di karate-do.

Poiché il karate-do è stato spiritualmente influenzato dallo zen mi sembra opportuno iniziare citando l’uomo maggiormente responsabile dell’introduzione del buddhismo zen nel mondo occidentale. Nel 1953 l’eminente studioso zen Suzuku Daisetsu, descrivendo la correlazione tra lo zen e le tradizioni del combattimento, scrisse che il budo, come viene studiato in Giappone, non è praticato per fini utilitaristici né per la sua esteriorità ma per allenare la mente, per portarla in contatto con la realtà più profonda.

Funakoshi Gichin (1868-1957), considerato il “padre del karate-do moderno”, scrisse inequivocabilmente che lo scopo ultimo del karate-do non risiede nella vittoria o nella sconfitta ma piuttosto nella ricerca del perfezionamento del carattere morale.

Motobu Choki (1871-1944), autorità primaria del toudijutsu, senza dubbio uno dei personaggi più controversi della tradizione e forse il più celebrato combattente, scrisse nel 1927 che, per cercare di comprendere l’essenza del karate, è necessario cercare oltre gli immediati risultati dell’allenamento fisico, senza mettere troppa enfasi sulla competizione o sui record di rottura ma piuttosto perseguendo la saggezza attraverso l’autoconoscenza e l’umiltà.

Mabuni Kenwa (1889-1952), fondatore dello shito-ryu e strenuo sostenitore dei valori morali, concluse che la comprensione del significato più profondo del karate-do consiste nel trascendere le distrazioni dell’ego e nel trovare la pace interiore. Mabuni sensei spiegò questo concetto utilizzando un poema astratto in cui scrisse che quando lo spirito del karate-do (bu) viene fortemente interiorizzato esso diventa il veicolo (descritto come una nave) grazie al quale si viene trasportati nel grande vuoto del mondo interiore (descritto come l’isola bu).

Tuttavia, Chibana Choshin (1887-1969), sosteneva che trascendere le distrazioni legate all’ego fosse molto difficile, specialmente per una generazione così presa dall’avidità e dominata dal materialismo. Chibana sensei descriveva spesso la profondità dell’umiltà genuina e di come lo shugyo (austerità) ne promuovesse l’acquisizione.

Confidare nel karate-do per procurarsi una rendita per vivere può influenzare la propria motivazione, scrisse Konishi Yasuhiro (1893-1983), uno dei principali architetti del karate-do moderno. Anche il più nobile degli scopi può spesso portare gli uomini a distorcere i fatti nel tentativo di sostenere le proprie teorie.

Itosu Anko (1831-1915), uno tra i più influenti pionieri del karate-do moderno affermò: «il karate lotta per costruire il carattere, migliorare il comportamento umano ed incoraggiare la modestia. Tuttavia non può garantire che questi obiettivi vengano raggiunti».

‘Bushi’ Matsumura Chikudun pechin Sokon (ca.1809-1901), il Miyamoto Musashi del Regno delle Ryukyu, fu responsabile dell’introduzione dei principi didattici del jigenryu kenjutsu e della relativa applicazione alla disciplina del gongfu cinese di cui era un esperto. Considerato nella storia del karate come la principale autorità delle tradizioni di autodifesa del distretto di Shuri, egli scrisse: «a tutti coloro il cui progresso viene ostacolato dal proprio ego, possa l’umiltà, pietra angolare spirituale su cui poggia l’Arte del Karate, servire da monito per anteporre sempre le virtù ai vizi, i valori alla vanità ed i principi alle personalità».

Matsumora Chikudun pechin Kosaku, illustre autorità di quella tradizione del combattimento che si sviluppò nel distretto di Tomari, affermò: «la maestria nel karatejutsu non è possibile se non si raggiunge l’illuminazione del mondo interiore».

‘Toudi’ Sakugawa Chikudun pechin Kanga, insegnante di Bushi Matsumura e forza principale nel primo sviluppo delle tradizioni del combattimento civile di Okinawa, sostnenva che «non è necessario lasciare il dojo per trovare quello che si cerca».

Non c’è fine all’apprendimento – affermava Hanshiro Chomo (1869-1945), primo ad aver usato il prefisso moderno ‘kara’ nel titolo della sua pubblicazione del 1905, intitolata ‘karate kumite’. Descrivendo l’arte di autodifesa che fa uso delle sole mani vuote per sottomettere un aggressore, la sua innovazione letterale richiamava l’antica dottrina buddista caratterizzata dall’emancipazione spirituale e dal mondo interiore, così come il suffisso ‘do’, introdotto in seguito sulla scia di quanto fatto dalle altre discipline combattive giapponesi moderne.

Akamine Eisuke (n. 1925), presidente del Ryukyu Kobudo Hozon Shinko Kai, affermo: «c’è un limite al miglioramento attraverso il fenomeno sportivo del karate ma non ci sono limiti alla crescita personale per coloro che perseguono il karate-do, la via del karate.

Nagamine Shoshin (n. 1907) scrisse, riguardo al declino spirituale delle tradizioni combattive, quanto segue: «è negativo che molti allievi del ‘Bu’ rifiutino di vederlo, sentirlo e conoscerlo». Prendendo Bushi Matsumura e Itosu sensei come modelli, egli credeva ardentemente che quelli fossero uomini che, nella loro lunga vita, non dimenticarono mai di essere esempi personali di quello che il Bu e il karate rappresentavano. Infatti le loro convinzioni trascritte – ‘I sette princìpi del Bu’ di Matsumura e ‘Le dieci lezioni’ di Itosu – hanno fornito l’infrastruttura su cui si è sviluppata la tradizione moderna del karate-do.

Shimabukuro Eizo, maestro della scuola Shobayashi dello Shorinryu, sosteneva che chi è realmente esperto nel karate non è mai rude e pone pace ed armonia in cima alle proprie priorità personali.

Gichin Funakoshi spesso descriveva il karate-do come veicolo intengibile attraverso il quale si giunge ad una scoperta interiore che porta ad una più profonda comprensione della vita e del mondo in cui viviamo.

«Quando si perde lo spirito, l’allenamento ripetitivo diventa difficile e anche noioso». Miyamoto Musashi, uno tra i più celebrati guerrieri samurai del Giappone feudale, riferendosi all’allenamento, era solito affermare: «mille giorni per forgiare lo spirito, diecimila per lucidarlo».

Storie di Samurai
Suzuki Daisetsu, scrisse nel 1938 (nel suo libro Buddismo Zen e la sua influenza sulla cultura giapponese, pagg 7,8) che i maestri giapponesi di scherma utilizzavano spesso il metodo di allenamento zen. Ho raccolto quattro brevi storie per meglio illustrare come i princìpi del bushido e la mentalità dei guerrieri samurai hanno influenzato lo sviluppo del karate-do.

Per creare il giusto stato mentale lasciatemi citare Shimada Toranosuke, maestro di spada della scuola Jikishin Kageryu del periodo Tokugawa: «La spada è la mente, se la mente non è corretta allora nemmeno la spada sarà corretta. Se si desidera studiare la spada è necessario prima studiare la mente».

Un tempo, nell’antico Giappone, un allievo impaziente chiese ad un maestro di essere istruito nella nobile arte della spada. Il maestro, che si era ritirato nella sua capanna in montagna, accettò di insegnargli.
All’inizio all’allievo venne chiesto di cercare legna per il fuoco, attingere acqua alla vicina sorgente, tagliare legna e accendere il fuoco, cuocere il riso, spazzare le stanze, mantenere il giardino e, in generale, prendersi cura delle faccende domestiche per il maestro. Non c’era mai una lezione regolare né istruzioni tecniche.
Dopo qualche tempo il giovane si sentiva profondamente insoddisfatto, in fondo non si era recato da quel vecchio signore per fare il servo ma per imparare l’arte della spada. Un giorno si rivolse al maestro e gli chiese di essere istruito. Il maestro accettò ma alla fine concluse che il giovane non era in grado di compiere alcun lavoro in sicurezza. Quando cominciava a cuocere il riso, al mattino, il maestro appariva da dietro e lo colpiva con un bastone. Mentre stava spazzando il pavimento ecco arrivare un altro colpo da una direzione diversa. Non aveva pace e doveva sempre stare in guardia contro attacchi improvvisi.
Passarono alcuni anni prima che fosse in grado di evitare con successo i colpi, indipendentemente da dove arrivavano. Ma il maestro non si dimostrava ancora del tutto soddisfatto.
Un giorno il maestro stava cucinando alcune verdure sul fuoco e l’allievo decise di sfruttare l’opportunità. Prese il lungo bastone e lo lasciò cadere sulla testa del maestro che era chinato a mescolare il contenuto della pentola. Il maestro parò rapidamente il colpo con il coperchio della pentola e in quell’esatto momento la mente dell’allievo si aprì ai segreti dell’arte che gli erano stati, fino a quel momento, celati. Per la prima volta apprezzò realmente le abilità della preparazione e della consapevolezza.

Altri raccontano la stessa storia in modo differente. La versione più popolare si riferisce a Yagyu Mutajuro nelle vesti del giovane samurai in cerca di istruzione ed al guerriero samurai in pensione chiamato Banzo. In quella versione era Yagyu che stava cucinando mentre il maestro cercò di colpirlo. Yagyu bloccò il colpo usando il coperchio della pentola e Banzo lo premiò con un menkyo senza avergli mai insegnato una sola tecnica di spada.

Entrambe le versioni illustrano chiaramente l’importanza data alla preparazione, consapevolezza (zanshin) e pazienza.

Determinazione, “il potere interiore”
C’è una vecchia storia, spesso raccontata da Otake Risuke sensei (maestro del Tenshin Shoden Katori Shinto-ryu, la più antica scuola verificata di arti marziali giapponesi), che illustra un punto interessante.
Molto tempo fa c’era un giovane samurai molto innamorato della sua fidanzata. Un giorno quest’ultima stava camminando nella foresta quando venne attaccata e dilaniata da una tigre. Non ci fu nulla che il giovane samurai potesse fare per salvarle la vita e la ragazza morì.
Dal profondo del suo dolore egli giurò di vendicare la sua amata ripromettendosi di cercare quella tigre per ucciderla. Vagando per la foresta il samurai vide a distanza una tigre addormentata e concluse che doveva essere quella che aveva ucciso la sua amata. Afferrò il suo arco, prese attentamente la mira e scoccò la freccia che si conficcò in profondità nel corpo della tigre. Prese subito un’altra freccia e la preparò sull’arco, si avvicinò quindi lentamente alla creatura immobile per verificarne la morte quando si rese conto che la sua freccia era penetrata all’interno di una roccia striata che da lontano sembrava una tigre addormentata.
Dopo questo fatto tutti iniziarono a parlare di quanto egli fosse forte essendo riuscito a perforare una roccia con la sua freccia e sempre più persone erano determinate a testarne le capacità. Tuttavia egli non riuscì, nonostante avesse provato molte volte, a ripetere l’impresa e la sua freccia continuava a rimbalzare sulla roccia. Nel passato la sua determinazione era stata così profonda da consentire alla freccia di perforare la roccia. Tuttavia ora, in circostanze così diverse, egli non riusciva a ottenere lo stesso risultato.
Questa storia forma le basi per la comprensione del detto «un forte volere può perforare la roccia» ma ancor più importante dimostra chiaramente quando la determinazione possa essere un veicolo potente.

Yagyu Tajima no Kami
Il seguente aneddoto appare nell’Hagakure che risale al Giappone feudale della metà del diciassettesimo secolo. Yagyu Tajima no Kami fu un grande spadaccino e maestro dell’arte di Tokugawa Iemitsu, lo shogun di quel periodo. Un giorno una guardia personale di Iemitsu fece visita a Yagyu sensei per essere istruito nell’arte del maneggio della spada. Il maestro Yagyu disse: «da quel che vedo mi sembri già un maestro nell’arte della spada, ti prego dimmi a quale scuola appartieni prima che instauriamo una relazione maestro allievo». La guardia rispose: «mi vergogno a dire che non ho mai studiato davvero l’arte».
Il maestro Yagyu replicò dicendo: «mi stai prendendo in giro? Sono il maestro dell’onorevole Shogun e so che i miei occhi non mi ingannano». «Mi dispiace offenderti ma davvero non conosco nulla» rispose la guardia.
La risoluta negazione da parte del visitatore portò il maestro di spada a riflettere per un attimo e finalmente disse: «se lo dici deve essere così, ma sono ancora certo che tu sei un maestro in qualcosa, sebbene non sappia in cosa».
«Se insisti ti dirò questo. C’è una cosa di cui posso dire di essere un completo maestro. Quando ero un ragazzo ero convinto che un samurai non dovesse mai avere paura della morte, qualsiasi cosa gli fosse accaduta. Lottai contro questo ostacolo ma alla fine lo vinsi e la morte cessò di preoccuparmi, forse è questo che senti». «Esatto!» – esclamò Yagyu sensei – «è questo ciò che intendo. Sono felice che il mio giudizio sia stato confermato. L’ultimo segreto dell’arte della spada consiste proprio nel non essere più preoccupati della morte. Ho allenato centinaia di allievi lungo questo percorso ma nessuno di loro merita il diploma finale di maestria nell’arte della spada. Tu non hai bisogno di allenamento tecnico, sei già un maestro».

La più breve lezione di Chiba Shusaku
Chiba Shusaku fu un illustre maestro di spada vissuto nell’antico Giappone durante il periodo Edo. Un giorno, nel 1854 un giovane samurai gli fece visita. Il samurai lo implorò di rivelargli come poter morire con onore. Quando Chiba sensei gli chiese perché, in primo luogo, egli volesse morire, il giovane samurai gli raccontò la sua storia. Un giorno, mentre serviva il suo signore, gli venne ordinato di trasportare un dispaccio importante. Lungo la strada incontrò uno tsujigiri, un uomo che per profitto, per perfezionare la sua tecnica o semplicemente per testare una nuova spada uccideva uomini inermi.
Il giovane samurai capì immediatamente che lo tsujigiri era un formidabile esperto nel maneggio della spada e così gli disse: «dato che sto eseguendo un compito importante per il mio signore, non posso rischiare di venire ucciso da te qui ed ora. Tuttavia tornerò ed accetterò la sfida dopo aver concluso il mio compito», ciò detto si ritirò promettendo di tornare più tardi, nel pomeriggio.
Tuttavia, dopo aver portato a termine il suo incarico si rese conto di non aver fiducia e che non ci sarebbe stato un vero incontro lo tsujigiri, rammaricandosi di dover morire come un codardo. La sua preoccupazione maggiore non era quella di perdere la vita bensì di disonorare il suo signore, così decise di far visita al famoso maestro Chiba per chiedergli consiglio.
In risposta alla richiesta del giovane samurai il maestro disse che gli avrebbe insegnato la tecnica di spada definitiva. «Quando affronterai il tuo avversario per prima cosa porta la tua spada sopra la testa in jodan no kamae, chiudi gli occhi e aspetta. Quando starai per essere ucciso sentirai una corrente fredda percorrere il tuo corpo, in quel momento esegui un fendente verso il basso con la tua spada senza esitazione immaginando di essere già all’altro mondo e morirai con onore.»
Il giovane samurai ringraziò cortesemente il grande maestro e tornò velocemente all’incontro con lo tsujigiri. Quando l’incontro iniziò lo tsujigiri estrasse la spada e senza paura assunse la posizione chudan no kamae, puntando la punta della sua lama verso la gola del giovane samurai. Il giovane uomo seguì le istruzioni del grande maestro di spada e fiducioso alzò la sua spada sopra la testa e chiuse gli occhi. In lui non c’erano pensieri di paura o sopravvivenza, la sua mente era già all’altro mondo.
Lo tsujigiri, spadaccino dall’esperienza eccezionale, sapeva che avrebbe potuto facilmente uccidere il giovane samurai. Tuttavia, in quel preciso istante, proprio per la sua grande esperienza, realizzò che avrebbe potuto a sua volta essere ucciso vista la posizione del giovane uomo. Dopo essere rimasti immobili nelle loro posizioni per circa trenta minuti lo tsujigiri balzò indietro ed urlò «ECCELLENTE!» lasciando quel luogo tanto velocemente quanto era arrivato.
Il maestro Chiba aveva segretamente inviato uno dei suoi allievi ad osservare l’incontro. Quando gli venne riportato il risultato affermò: «il giovane samurai aveva già fatto i conti con la vita e la morte e in un attimo fu in grado di raggiungere quello stato mentale che gli artisti marziali tentano di raggiungere per tutta la loro vita».

Il valore del Karate-do nei tempi moderni
Essere il migliore, indipendentemente dal fatto che si parli di combattimento, sport, business o vita in generale, richiede incredibile determinazione e forza interiore. Tale indomita forza d’animo, necessaria per trascendere le barriere dell’ordinario, non è raggiungibile senza prima fare enormi sacrifici personali. Un prerequisito che ogni combattente veterano, campione sportivo o imprenditore di successo può attestare.
Attraverso le virtù del Karate-do ci si confronta con le proprie debolezze. È attraverso tali virtù che le debolezze si trasformano in punti di forza e la forza in forza ancora maggiore; in questo modo la tradizione raggiunge il suo scopo. La forza indomita ci isola dalle forze negative delle tentazioni immorali e dalle azioni irresponsabili, fornendoci la resilienza per superare i fallimenti personali.

Una mente temprata dalla tradizione del karate-do rimarrà impermeabile alle delusioni mondane ed illuminerà l’oscurità dell’egoismo e dell’ignoranza. Come per un guerriero samurai imperterrito davanti alla paura, la preparazione, la pazienza e l’umiltà rappresentano il 90% del combattimento, della vittoria e della vita. Con un maggior controllo sulla nostra mente e sul “mondo interiore” possiamo avere maggior controllo sul nostro corpo, sulla nostra vita e sul mondo esterno. È mettendo all’opera ogni giorno questo potere e la conoscenza che le nostre vite vengono arricchite e soddisfatte in modi che non pensavamo possibili.

Il rompicapo dello sfruttamento commerciale
Argomento affrontato raramente e quasi sempre considerato secondario al perseguimento di valori più pratici, quello dello sfruttamento commerciale ha a lungo reso le arti marziali un fenomeno affascinante. Descritto come male necessario, lo sfruttamento commerciale, mentre serviva a generare un’indicibile popolarità, ha tragicamente ridotto la reputazione di questa onorevole tradizione. Gli insegnanti veterani di Karate-do possono facilmente testimoniare di come l’arte sia oggi unilaterale e di come ci sia bisogno dei valori tradizionali, ora più necessari che mai.
Ego, ignoranza, avidità e animosità, insieme alle ricompense finanziarie dello sfruttamento commerciale, hanno reso necessarie miriadi di interpretazioni eclettiche di antiche tradizioni di combattimento del Giappone. Ancora da qualche parte, nella scia dello sfruttamento commerciale, i valori morali su cui si è sviluppato il karate-do perdurano, pur restando in ombra rispetto ad un insieme più aggressivo di norme.
Come tale il karate-do soffre di un terribile squilibrio tra i suoi principi fisici, mentali e spirituali.
Tanto è vero che, almeno nel mondo occidentale, una miriade di tradizioni radicali ed eclettiche si sono sviluppate con poco riguardo e nessuna comprensione per i valori tradizionali. In sostanza non ci sono nuove pratiche, solo fusioni di antiche idee in circostanze moderne.
Henri Poincaré (1854-1912) scrisse: “la scienza si basa sui fatti proprio come una casa è fatta di mattoni, ma la mera collezione di fatti non è scienza, come una pila di mattoni non è una casa”. La correlazione tra questa metafora e lo squilibrio che attualmente ingolfa le tradizioni combattive moderne è ironicamente comparabile.
Generalmente parlando, il karate-do nel mondo occidentale è stato considerato come mero sport e/o come mezzo brutale di autodifesa. Soggetto alle forze culturali della società occidentale, il karate-do e altri tipi di budo giapponese non godono della stessa reputazione che hanno in Giappone.
Come sport il karate-do è spesso percepito come metodo sofisticato di brutalità fisica e, come la sua controparte commerciale, è caratterizzato da animosità politica e sfruttamento commerciale.
Come metodo di autodifesa il karate-do è stato scelto da coloro il cui comportamento immorale e le azioni irresponsabili hanno fatto poco per migliorare le dottrine filosofiche o spirituali su cui si basa l’arte. Perseguito come veicolo introspettivo, il valore non utilitaristico del karate-do, come praticato in Giappone, deve essere ancora pienamente scoperto in occidente.
Tra le varie autorità con le quali sono venuto in contatto grazie a questa ricerca, sono rimasto maggiormente influenzato da coloro che parlano del trascendere le distrazioni dell’ego, scoprire cosa giace oltre gli immediati risultati dell’allenamento fisico. Il loro genuino sforzo per perpetuare i fondamenti morali, filosofici e spirituali sui quali si basa questa eredità unica ha profondamente influenzato il mio modo di concepire il karate-do. La cosa che mi offende maggiormente è l’atteggiamento di chi erroneamente si considera l’unica autorità, promuovendo il protezionismo, il dissenso e l’arroganza.
Il fenomeno competitivo ha rivoluzionato lo studio del karate delle Ryukyu e lo sfruttamento commerciale ha provocato la nascita di una miriade di interpretazioni ibride. Eppure, i valori centrali sono rimasti al di fuori di questo “progresso”, quei valori sui quali questo fenomeno culturale si è sviluppato e senza i quali il karate-do si ridurrebbe a nulla più di un sofisticato metodo di brutalità comune. È criticamente importante che lo scopo ultimo del karate-do non venga oscurato da chi ignora tali valori o da chi si dimostra arrogante di fronte ai suoi precetti.
In qualità di appassionati di questa antica confraternita siamo tutti, chi più chi meno, responsabili della crescita e della direzione del karate-do. Una responsabilità che si estende oltre il dojo, fino alla società nella sua interezza.
Come gli appassionati che ci hanno preceduto, anche noi abbiamo il bisogno di stabilire una simbiosi con il karate-do in modo che le nostre vite siano un prodotto dell’arte così come l’arte divenga il prodotto delle nostre vite. È triste che così tanti vengano e vadano senza nemmeno apprendere che c’è di più nel karate-do rispetto ai risultati immediati dell’allenamento fisico. Che si sia un nuovo allievo o un maestro veterano, presto o tardi, se ci si aspetta di raggiungere la vera maestria si deve per prima cosa comprendere come utilizzare il “mondo interiore”, non è mai troppo tardi per cominciare.

Esercitare la mente
Sebbene un’intera dissertazione potrebbe meglio illuminare il potere del “pensare”, credo che la maggior parte delle persone abituata alla rigorosa disciplina fisica del karate-do possa facilmente comprendere la grandezza del controllo mentale. Infatti affermare che la fonte di tutto il potere inizia nella mente non è affatto un’esagerazione. È grazie all’attitudine, nell’applicazione dei nostri pensieri, che le condizioni conducono alla crescita e all’armonia.
È solo attraverso la coltivazione della nostra natura spirituale che la fede, il coraggio e l’entusiasmo portano alle ricompense della realizzazione. La nostra natura spirituale può essere coltivata solo attraverso il “fare”; “possiamo solo ottenere quello che offriamo”, “solo raccogliere quel che abbiamo seminato”, infatti la legge della crescita dipende interamente dalle azioni reciproche: riceviamo solo quel che diamo. Coltivare la nostra natura spirituale comincia con la padronanza di un rituale di introspezione, l’immobilità fisica, praticato a lungo prima che i benefici possano essere messi in pratica.
Con la nostra attenzione indirizzata all’interno, i pensieri sono focalizzati fino a che la mente attrae le condizioni necessarie alla realizzazione. La concentrazione deve diventare così intensa da indentificarci con l’oggetto dei nostri pensieri, fino a che non si giunge ad essere così attenti da non essere consci di null’altro. In ultima analisi il pensiero si trasforma nel carattere (siamo quel che pensiamo) ed il carattere è il magnete che crea l’ambiente dell’individuo. Attraverso lo sviluppo del nostro potere di percezione, saggezza, intuizione e sagacia, la nostra concentrazione si intensifica. Abbiamo solo bisogno di riconoscere l’onnipotenza della nostra natura spirituale ed il desiderio di diventare il destinatario dei suoi effetti benefici.
Tuttavia, per poter pianificare coraggiosamente ed eseguire senza paura, si deve comprendere la legge di causa ed effetto; la causalità dipende interamente dalla polarità: un circuito deve essere chiuso, l’universo è il polo positivo della batteria della vita, l’individuo è il negativo e i pensieri formano il circuito.
La conoscenza di questo potere fornisce il coraggio di osare e la fede per giungere a compimento. Il grado di successo dipende interamente dalla misura in cui ci si rende conto che l’infinito non può essere cambiato ma si deve cooperare con esso.
Un cambiamento di pensiero significa un cambiamento nelle condizioni. I risultati di un’attitudine mentale armoniosa (lo scopo finale del karate-do) porta a condizioni armoniose nella vita. I pensieri egoistici portano i germi della contaminazione.
La capacità di appropriarsi di quel che è necessario per la crescita in ogni esperienza determina il grado di armonia che se ne otterrà. Gli ostacoli sono necessari per la propria saggezza e la crescita spirituale.
Concentrarsi sui successi piuttosto che sui fallimenti, mantenere l’interesse per la corsa anziché solo per il risultato, focalizzarsi sul raggiungimento piuttosto che sul possesso. La nostra abilità nel pensare rappresenta l’abilità di agire e di portare quel che pensiamo a manifestarsi per il beneficio degli altri e di noi stessi. Quel che facciamo dipende da quello che siamo e quello che siamo dipende da quel che pensiamo.
Il successo o il fallimento è determinato in misura maggiore o minore dallo stile di vita. Lo stile di vita è dominato dall’attitudine. L’attitudine dipende interamente dai propri pensieri; riassunto dall’espressione “non siamo niente più della somma totale dei nostri pensieri e decisioni quotidiane”. Come si parla e ci si comporta rappresenta, in essenza, quel che si pensa. Per questo motivo pensare è cruciale all’essere. Questo è vero perché si “deve essere” prima di “poter fare” e si “può fare” solo nella misura in cui “si è”, e quel che “si è” dipende interamente da quel che “si pensa”. Non si può esprimere potere se non lo si possiede. Uno deve scoprire il potere interiore e studiare come utilizzarlo per rafforzare e migliorare il mondo esterno.
Quante esperienze facciamo apprendendo in realtà molto poco. Comprendiamo molte cose ma non realizziamo praticamente nulla. Tratteniamo molti fatti ed opinioni ma in essenza conosciamo molto poco di noi stessi. Mentire non cambia nulla. Come si può pianificare una fuga senza prima realizzare che si è imprigionati? Bisogna battere e ripulire lo spirito fino a che diventa forte e vibrante come una spada da samurai. Non ci si deve focalizzare sulle pene dei fallimenti ma piuttosto sui frutti del successo. Il segreto del cambiamento non consiste nel combattere il vecchio ma piuttosto nel concentrarsi sulla costruzione del nuovo.
Anche se il processo si protrae esso è del tutto unico e può senza dubbio cambiare la vita se lo si desidera. C’è un intero sistema da apprendere che comporta una serie di esercizi mentali da eseguire con un ordine metodico. Lasciatemi introdurre le tecniche preliminari attraverso il seguente breve riassunto. Spero che vogliate abbracciarne con ottimismo il valore e continuare a cercarne la saggezza.
Ogni giorno prima, dopo o durante l’allenamento dei kata, trovate un posto dove potete sedervi in modo confortevole e indisturbato per circa trenta minuti ogni volta. Il punto cardinale consiste nell’essere a vostro agio e indisturbati … ricordate: non dovrete venir disturbati e avrete bisogno di circa trenta minuti solo per voi.
La preparazione iniziale consiste nel sedersi con la schiena perpendicolare a terra e ben dritta (su una sedia può andar bene) ma rilassati, con le mani sul grembo e gli occhi chiusi. Non ci si deve preoccupare sul cosa pensare o se ci sia qualche mantra esotico da ripetere. Lasciate semplicemente la mente libera.
Può sembrare piuttosto semplice ma molti avranno grosse difficoltà a trovare la pazienza per praticare anche solo questo esercizio fondamentale.
Tuttavia siate certi che i benefìci si manifesteranno indubbiamente entro poche settimane dall’inizio della pratica regolare. La cosa più importante è che l’esercizio regolare e l’allenamento mentale lavorino in armonia in preparazione al prossimo passo. La pazienza è una virtù e vi incoraggio ad equilibrare l’allenamento fisico e mentale con l’assimilazione filosofica, attraverso i documenti antichi precedentemente menzionati.

Conclusione
Attraverso lo studio del passato ci si avvicina alla comprensione del presente. Analizzando sia il passato che il presente si è in grado di gettare uno sguardo ancor più profondo al karate-do, insieme a ciò che i suoi valori non utilitaristici rappresentano. Vivere nel passato è da folli esattamente come credere che si possa viaggiare nel futuro. La felicità può essere goduta solo nel presente. La ricerca di questa natura è criticamente importante se vogliamo andare oltre gli immediati risultati dell’allenamento fisico.
Duemila anni fa Sūnzǐ (Sun Tzu), il grande stratega militare scrisse nella sua opera – “L’Arte della Guerra” – che la vittoria senza contesa è il risultato più grande per un guerriero. Questo è riassunto nella massima giapponese “tatakawa zushite katsu”, vincere senza combattere sconfiggendo il nemico interiore.
Il monaco buddista Takuan Soho scrisse, rivolgendosi al maestro di spada Yagyu, che l’ignoranza significa assenza di illuminazione, delusione. Dobbiamo trascendere la delusione per comprendere l’essenza del karate-do.
Tokugawa Ieyasu scrisse: “un pavone si riconosce dal suo piumaggio, una tigre dai suoi artigli, un guerriero samurai dal suo carattere”. Un principio confuciano (dialoghi 7:8) descrive il maestro mentre afferma che non verranno illuminati coloro che non hanno entusiasmo per lo studio. Egli non si ripeterà a coloro che non solleveranno gli altri tre angoli dopo che egli ha sollevato il primo per loro. Dobbiamo mantenere l’entusiasmo e la volontà di ricercare il significato più profondo del karate-do.
Dimenticata ma non persa, la saggezza di Tei Junsoku Uekata, ufficiale di alto rango del Regno delle Ryukyu nel 17° secolo, di stanza al distretto di Nago: “non importa quanto tu possa eccellere nelle tradizioni del combattimento e nei risultati accademici, nulla ha più significato del tuo comportamento e della tua umanità nella vita quotidiana”.
Piuttosto che guadagnare o acquisire bagaglio in eccesso nella vita, il karate-do ci insegna come rimuovere le distrazioni inutili, legate all’ego. Invece di sforzarsi di acquisire di più, la felicità può arrivare dall’apprendere come apprezzare il meno.
Piuttosto che prendere solo dal karate-do, dobbiamo considerare il fatto di donare a ciò che ci ha dato forza e potere. Ricordiamo che tutto il potere ed il successo ha a che fare con il trasformare la conoscenza in azione attraverso la padronanza del mondo interiore.

Scoprendo quel che giace oltre gli immediati risultati dell’allenamento fisico abbiamo imparato come beneficiare realmente dal karate-do. Tuttavia una domanda provocatoria resta senza risposta, invita ciascuno di noi a considerare seriamente non solo ciò che si può prendere da questa umile tradizione, ma piuttosto, come responsabili appassionati preoccupati dalla sua direzione futura, cosa possiamo dare al karate-do … l’arte e la via del karate?

Grazie per l’attenzione.

Patrick McCarthy

 


Copyright © Patrick McCarthy
Traduzione di Marco Forti
Questa traduzione è stata espressamente autorizzata dall’autore
(la riproduzione di questo testo è consentita solo con il consenso scritto dell’autore)

 

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